24 ottobre 2011

Poste Italiane, la banca col trucco

FA LA BANCA MA NON E' UNA BANCA, RICEVE FIUMI DI FINANZIAMENTI PUBBLICI MENTRE IL SERVIZIO POSTALE VA A ROTOLI. E IL GOVERNO NON BATTE CIGLIO, GRAZIE AI BUONI UFFICI DELL'AMMINISTRATORE DELEGATO, MASSIMO SARMI.
COME QUEL GIORNO DI FERRAGOSTO, QUANDO IL PRESIDENTE DI PANAMA E' VOLATO IN ITALIA PER INCONTRARE TALE VALTER LAVITOLA...

di Francesco Martini



Mentre le banche italiane traballano ce n'è una che va a gonfie vele e sta diventando un gigante. Ma attenzione, secondo le fonti ufficiali Poste Italiane “non è una banca, né vuole diventarlo”. Eppure la società del ministero dell'Economia gestisce 5,6 milioni di conti correnti con una giacenza media di circa 36 miliardi di euro, controlla la principale compagnia di assicurazioni sulla vita con 4,1 milioni di polizze PosteVita, è leader nel settore delle carte di credito prepagate con 7,2 milioni di clienti PostePay e ha una rete di 14mila sportelli che fa impallidire i colossi nazionali come Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Non è una banca?
Il primo agosto, inoltre, Poste Italiane ha acquistato in blocco il Mediocredito Centrale (il fondo unico di garanzia per le piccole e medie imprese) e ha preso possesso di una licenza bancaria. E' l'ultima tappa del percorso che porterà la società alla guida della “Banca del Mezzogiorno”, il progetto governativo che dovrebbe partire all'inizio del 2012: un istituto di credito interamente controllato dallo Stato attraverso Poste Italiane che ricorda la vecchia Cassa del Mezzogiorno e che potrà concedere o negare finanziamenti agevolati agli imprenditori del Sud Italia: se il progetto andrà in porto, Poste potrebbe diventare uno dei più influenti centri di potere del paese.
Ma allora perché ostinarsi a ripetere che “non è una banca”? Probabilmente perché la forza di Poste Italiane, secondo alcuni economisti liberali come Ugo Arrigo, deriva proprio da questa ambiguità, che permette all'azienda di nutrirsi di agevolazioni e aiuti di Stato mentre punta sui servizi finanziari, asfissiando il servizio pubblico di corrispondenza.

Più Banco, meno posta
La principale occupazione di Poste Italiane, in teoria, dovrebbe ancora essere la consegna di lettere e pacchetti: almeno fino al 2016 l'azienda ha il compito di garantire il buon funzionamento del servizio universale di corrispondenza ampiamente finanziato dallo Stato (489 milioni di euro nel 2010). Ma i servizi postali sono in rapido declino, subiscono tagli e ridimensionamenti e ormai contribuiscono per meno della metà ai ricavi del gruppo, nonostante i contributi e gli aumenti tariffari.
Invece i servizi finanziari fanno soldi a palate e crescono a pieno ritmo. Grazie alle polizze e ai conti correnti il Gruppo Poste ha chiuso il 2010 con un miliardo di euro di utili ed è terzo in classifica fra le aziende italiane nell'elenco di Fortune delle "World's most admired companies".

"E' un bluff"
E' un bluff. I bilanci d'oro, l'ammirazione internazionale, gli obbiettivi raggiunti sono solo una bella vetrina”. Il commento è di un moderato come Mario Petitto, segretario nazionale dei postali della Cisl, il sindacato più potente e collaborativo dell'azienda (per capirci: Beniamino Andreatta lo definiva "azionista di riferimento" e l'attuale presidente di Poste, Giovanni Ialongo, è stato segretario del sindacato). Negli ultimi dieci anni la Cisl non ha mai alzato barriere e ha consentito a Poste, addirittura, di mandare a casa metà dei lavoratori portando i bilanci in attivo. Ma adesso Petitto punta i piedi: "A che serve fare utili se il servizio peggiora? L'azienda distribuisce dividendi e bonus ai dirigenti ma taglia i mezzi di produzione. Queste due realtà sono inconciliabili: a cosa dobbiamo credere? Basta passare una mattinata dentro un ufficio postale per accorgersi che qualcosa che non torna: i sistemi informatici continuano a saltare, gli strumenti di lavoro scarseggiano e i cittadini restano in coda”.

L'anima parassita
All'interno di Poste convivono due società completamente diverse ma profondamente intrecciate: la banca, che continua a raccogliere utili, e l'azienda postale, sempre in perdita. Stando a un recente disegno di legge del senatore finiano Giuseppe Valditara, se il governo vendesse tutta la baracca a privati ne ricaverebbe circa 40 miliardi di euro, che in tempi di crisi farebbero davvero comodo. Ma anche i più accaniti sostenitori delle privatizzazioni (come Arrigo o Massimiliano Trovato dell'Istituto Bruno Leoni) ammettono che l'ipotesi, senza separare le anime di Poste, resta impraticabile.
BancoPosta, ad esempio, deve la sua fortuna ai quattordicimila uffici postali sparsi dalla Val d'Aosta a Lampedusa, pagati nel corso di un secolo dai contribuenti, che negli ultimi anni si sono trasformati, in parte, in uffici finanziari. Il ramo bancario di Poste sfrutta questa enorme rendita di posizione per fini diversi dal servizio pubblico: se pagasse l'affitto degli spazi che occupa, ad esempio, i conti avrebbero tutto un altro aspetto.
Altro nodo da sciogliere: gli stipendi. Il personale incide sul totale dei costi di produzione per il 71 per cento. Il segretario della Cisl conferma che moltissimi dipendenti “sono assunti con contratti postali ma svolgono a tutti gli effetti mansioni bancarie”. Solito discorso: se i lavoratori di BancoPosta fossero pagati come impiegati bancari, come ammette lo stesso Petitto, "i bilanci sarebbero completamente diversi”.

Una partita di giro
Le banche "classiche", chiaramente, non hanno accolto con favore la nascita del nuovo, potentissimo concorrente, che deposita i risparmi dei clienti direttamente nella Tesoreria di Stato (salvo una parte, investita in titoli di Stato). "Siamo il principale polmone di liquidità delle casse pubbliche" conferma Petitto con una punta di orgoglio. La Tesoreria, però, è fin troppo riconoscente. L'Abi ha denunciato alla Corte europea gli interessi fuori mercato corrisposti dallo Stato a Poste Italiane, che nel 2008 è stata condannata a restituire una cifra enorme: 483,9 milioni di euro. Problema risolto? Mica tanto. Perché il principale cliente di Poste Italiane, oltre ai comuni cittadini, è proprio la pubblica amministrazione. Una legge votata ad aprile “suggerisce” (non obbliga, per evitare censure dell'Antitrust) che “la gestione dei servizi di Tesoreria” dei piccoli Comuni sia “affidata a Poste Italiane”. Secondo la Corte dei Conti, nel 2009, il 76,5% dei ricavi di BancoPosta derivava da operazioni con denaro pubblico. Lo Stato e gli enti pubblici depositano i soldi su “conti postali infruttiferi”, quindi senza interessi. Attenzione al giro: Poste Italiane gestisce i risparmi dello Stato senza pagare interessi, ma deposita quel denaro proprio nelle casse della Tesoreria di Stato, che invece gli interessi li paga. In altre parole: il denaro rimbalza avanti e indietro fra Poste (che raccoglie interessi) e lo Stato (che paga e non ci guadagna nulla). Risultato? Secondo Ugo Arrigo “con questo sistema è molto facile abbellire un bilancio. Basta che lo Stato depositi una grossa somma su un conto corrente postale”.

Authority dipendente
Ma almeno le lettere arrivano puntuali? Insieme alla solidità dei bilanci, dovrebbe essere questo il principale metro di giudizio di un'azienda postale. Anche perché il servizio, secondo una stima della società di consulenza Copenaghen Economics, è fra i più cari d'Europa. E la qualità com'è? Stando ai dati ufficiali, addirittura eccellente. Sulla qualità di questi dati, invece, pesa qualche incertezza.
La vigilanza sull'azienda del Tesoro infatti è affidata a un altro ministero, quello dello Sviluppo economico. Un bel conflitto d'interessi, che doveva essere risolto lo scorso primo gennaio, quando la Commissione europea ha obbligato l'Italia a liberalizzare il mercato postale, insistendo sull'istituzione di un'Autorità indipendente di vigilanza. La liberalizzazione non ha dato grandi risultati e il monopolio di Poste Italiane è rimasto praticamente intatto, ma l'Authority è stata formata. Peccato che sia alle dirette dipendenze del ministero dello Sviluppo, che invece di seguire alla lettera le linee guida della legge 481 del 1995 in materia di regolazione dei servizi di pubblica utilità, si è limitato a trasferire dirigenti e risorse per dare forma al nuovo apparato burocratico. Non è ancora chiaro se la neonata "Agenzia nazionale di regolamentazione del settore postale" sia effettivamente in funzione e cosa stia facendo, ma i funzionari esclusi hanno già presentato ricorso contro le prime nomine.

Rose e fiori
Anche nei prossimi anni, quindi, i dai ufficiali potrebbero confermare la solita versione: le poste funzionano benone e le lettere arrivano in orario, a parte una leggera flessione della puntualità rispetto agli anni Novanta. Quasi un miracolo, visto che nell'ultimo decennio buona parte del personale è stato mandato a casa o trasferito in massa ai servizi finanziari, gli uffici minori continuano a chiudere i battenti e i sistemi informatici fanno regolarmente i capricci. Nel 2010 Poste Italiane ha destinato alla “logistica postale” solo il 16% del totale degli investimenti e nell'ultimo anno i disservizi postali sono stati oggetto di centinaia di interrogazioni parlamentari. Sempre da quest'anno, oltretutto, è stata completamente abolita la consegna di sabato della posta ordinaria e il servizio è stato colpito da arbitrarie “sospensioni estive” e periodi di "consegna a giorni alterni" nelle zone periferiche.
Come se non bastasse, le "due anime" di Poste spesso fanno a cazzotti fra loro. I cittadini in coda per ritirare una raccomandata, ad esempio, litigano con i clienti di BancoPosta che dispongono di una "corsia preferenziale" anche per i servizi postali (sull'argomento è stata presentata un'interrogazione parlamentare, ancora senza risposta). Sembra la quadratura del cerchio: i disservizi diventano un'occasione per fare cassa.

S.I.L.V.I.O.
Ma per quale motivo Poste Italiane è oggetto di tante premure e gode di una straordinaria libertà d'azione? L'amministratore delegato, Massimo Sarmi (che prende lo stipendio anche come direttore generale e ora anche come presidente del Mediocredito Centrale), è stato nominato e riconfermato per quattro mandati consecutivi sempre da governi presieduti da Silvio Berlusconi. Su proposta di Berlusconi è stato anche insignito dei titoli di Commendatore, Grande Ufficiale e Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana. Indimenticabile l'inaugurazione, a fianco del presidente del Consiglio, del software per la gestione della corrispondenza (che si è impiantato per un'intera settimana lo scorso giugno). Il nome tecnico è “Sistema informatico a livello virtuale di integrazione operativa”, da cui l'acronimo: “S.I.L.V.I.O.”.
Vale la pena ricordare anche la nomina dell'onorevole Maria Grazia Siliquini, lo scorso aprile, nel consiglio d'amministrazione di Poste. A dicembre 2010 la deputata aveva graziato il governo con un voto di fiducia, saltando da Fli al gruppo dei Responsabili. Memorabile la dichiarazione: “Ho fatto il sottosegretario al ministero dell'Istruzione, potrò ben dirigere le Poste!”. In seguito, responsabilmente, la Siliquini ha rinunciato all'incarico.
L'ultimo episodio risale all'estate: in cima ai pensieri dell'amministratore delegato, la domenica di Ferragosto, c'era la firma di un protocollo d'intesa (non proprio fondamentale) fra Poste Italiane e la Repubblica di Panama. In quell'occasione il presidente panamense ha incontrato un noto confidente del presidente del Consiglio, Valter Lavitola, che in seguito, per sottrarsi alle inchieste giudiziarie, è volato proprio a Panama.
Al quadro si aggiunge il progetto di trasformare Poste in una “banca di secondo livello”, attivando la Banca del Mezzogiorno: uno strumento potente nelle mani dell'esecutivo, che potrà aprire e chiudere, con la massima discrezionalità, il rubinetto dei finanziamenti nel Sud Italia, incassando debiti di riconoscenza.