FA LA BANCA MA NON E' UNA BANCA, RICEVE FIUMI DI FINANZIAMENTI PUBBLICI MENTRE IL SERVIZIO POSTALE VA A ROTOLI. E IL GOVERNO NON BATTE CIGLIO, GRAZIE AI BUONI UFFICI DELL'AMMINISTRATORE DELEGATO, MASSIMO SARMI.
COME QUEL GIORNO DI FERRAGOSTO, QUANDO IL PRESIDENTE DI PANAMA E' VOLATO IN ITALIA PER INCONTRARE TALE VALTER LAVITOLA...
COME QUEL GIORNO DI FERRAGOSTO, QUANDO IL PRESIDENTE DI PANAMA E' VOLATO IN ITALIA PER INCONTRARE TALE VALTER LAVITOLA...
di Francesco Martini
Mentre
le banche italiane traballano ce n'è una che va a gonfie vele e sta
diventando un gigante. Ma attenzione, secondo le fonti ufficiali
Poste Italiane “non è una banca, né vuole diventarlo”. Eppure
la società del ministero dell'Economia gestisce 5,6 milioni di conti
correnti con una giacenza media di circa 36 miliardi di euro,
controlla la principale compagnia di assicurazioni sulla vita con 4,1
milioni di polizze PosteVita, è leader nel settore delle carte di
credito prepagate con 7,2 milioni di clienti PostePay e ha una rete
di 14mila sportelli che fa impallidire i colossi nazionali come
Unicredit e Intesa Sanpaolo.
Non è
una banca?
Il primo
agosto, inoltre, Poste Italiane ha acquistato in blocco il
Mediocredito Centrale (il fondo unico di garanzia per le piccole e
medie imprese) e ha preso possesso di una licenza bancaria. E'
l'ultima tappa del percorso che porterà la società alla guida della
“Banca del Mezzogiorno”, il progetto governativo che dovrebbe
partire all'inizio del 2012: un istituto di credito interamente
controllato dallo Stato attraverso Poste Italiane che ricorda la
vecchia Cassa del Mezzogiorno e che potrà concedere o negare
finanziamenti agevolati agli imprenditori del Sud Italia: se il
progetto andrà in porto, Poste potrebbe diventare uno dei più
influenti centri di potere del paese.
Ma
allora perché ostinarsi a ripetere che “non è una banca”?
Probabilmente perché la forza di Poste Italiane, secondo alcuni
economisti liberali come Ugo Arrigo, deriva proprio da questa
ambiguità, che permette all'azienda di nutrirsi di agevolazioni e
aiuti di Stato mentre punta sui servizi finanziari, asfissiando il
servizio pubblico di corrispondenza.
Più
Banco, meno posta
La
principale occupazione di Poste Italiane, in teoria, dovrebbe ancora
essere la consegna di lettere e pacchetti: almeno fino al 2016
l'azienda ha il compito di garantire il buon funzionamento del
servizio universale di corrispondenza ampiamente finanziato dallo
Stato (489 milioni di euro nel 2010). Ma i servizi postali sono in
rapido declino, subiscono tagli e ridimensionamenti e ormai
contribuiscono per meno della metà ai ricavi del gruppo, nonostante
i contributi e gli aumenti tariffari.
Invece i
servizi finanziari fanno soldi a palate e crescono a pieno ritmo.
Grazie alle polizze e ai conti correnti il Gruppo Poste ha chiuso il
2010 con un miliardo di euro di utili ed è terzo in classifica fra
le aziende italiane nell'elenco di Fortune delle "World's most
admired companies".
"E'
un bluff"
“E'
un bluff. I bilanci d'oro, l'ammirazione internazionale, gli
obbiettivi raggiunti sono solo una bella vetrina”. Il commento è
di un moderato come Mario Petitto, segretario nazionale dei postali
della Cisl, il sindacato più potente e collaborativo dell'azienda
(per capirci: Beniamino Andreatta lo definiva "azionista di
riferimento" e l'attuale presidente di Poste, Giovanni Ialongo,
è stato segretario del sindacato). Negli ultimi dieci anni la Cisl
non ha mai alzato barriere e ha consentito a Poste, addirittura, di
mandare a casa metà dei lavoratori portando i bilanci in attivo. Ma
adesso Petitto punta i piedi: "A che serve fare utili se il
servizio peggiora? L'azienda distribuisce dividendi e bonus ai
dirigenti ma taglia i mezzi di produzione. Queste due realtà sono
inconciliabili: a cosa dobbiamo credere? Basta passare una mattinata
dentro un ufficio postale per accorgersi che qualcosa che non torna:
i sistemi informatici continuano a saltare, gli strumenti di lavoro
scarseggiano e i cittadini restano in coda”.
L'anima
parassita
All'interno
di Poste convivono due società completamente diverse ma
profondamente intrecciate: la banca, che continua a raccogliere
utili, e l'azienda postale, sempre in perdita. Stando a un recente
disegno di legge del senatore finiano Giuseppe Valditara, se il
governo vendesse tutta la baracca a privati ne ricaverebbe circa 40
miliardi di euro, che in tempi di crisi farebbero davvero comodo. Ma
anche i più accaniti sostenitori delle privatizzazioni (come Arrigo
o Massimiliano Trovato dell'Istituto Bruno Leoni) ammettono che
l'ipotesi, senza separare le anime di Poste, resta impraticabile.
BancoPosta,
ad esempio, deve la sua fortuna ai quattordicimila uffici postali
sparsi dalla Val d'Aosta a Lampedusa, pagati nel corso di un secolo
dai contribuenti, che negli ultimi anni si sono trasformati, in
parte, in uffici finanziari. Il ramo bancario di Poste sfrutta questa
enorme rendita di posizione per fini diversi dal servizio pubblico:
se pagasse l'affitto degli spazi che occupa, ad esempio, i conti
avrebbero tutto un altro aspetto.
Altro
nodo da sciogliere: gli stipendi. Il personale incide sul totale dei
costi di produzione per il 71 per cento. Il segretario della Cisl
conferma che moltissimi dipendenti “sono assunti con contratti
postali ma svolgono a tutti gli effetti mansioni bancarie”. Solito
discorso: se i lavoratori di BancoPosta fossero pagati come impiegati
bancari, come ammette lo stesso Petitto, "i bilanci sarebbero
completamente diversi”.
Una
partita di giro
Le
banche "classiche", chiaramente, non hanno accolto con
favore la nascita del nuovo, potentissimo concorrente, che deposita i
risparmi dei clienti direttamente nella Tesoreria di Stato (salvo una
parte, investita in titoli di Stato). "Siamo il principale
polmone di liquidità delle casse pubbliche" conferma Petitto
con una punta di orgoglio. La Tesoreria, però, è fin troppo
riconoscente. L'Abi ha denunciato alla Corte europea gli interessi
fuori mercato corrisposti dallo Stato a Poste Italiane, che nel 2008
è stata condannata a restituire una cifra enorme: 483,9 milioni di
euro. Problema risolto? Mica tanto. Perché il principale cliente di
Poste Italiane, oltre ai comuni cittadini, è proprio la pubblica
amministrazione. Una legge votata ad aprile “suggerisce” (non
obbliga, per evitare censure dell'Antitrust) che “la gestione dei
servizi di Tesoreria” dei piccoli Comuni sia “affidata a Poste
Italiane”. Secondo la Corte dei Conti, nel 2009, il 76,5% dei
ricavi di BancoPosta derivava da operazioni con denaro pubblico. Lo
Stato e gli enti pubblici depositano i soldi su “conti postali
infruttiferi”, quindi senza interessi. Attenzione al giro: Poste
Italiane gestisce i risparmi dello Stato senza pagare interessi, ma
deposita quel denaro proprio nelle casse della Tesoreria di Stato,
che invece gli interessi li paga. In altre parole: il denaro rimbalza
avanti e indietro fra Poste (che raccoglie interessi) e lo Stato (che
paga e non ci guadagna nulla). Risultato? Secondo Ugo Arrigo “con
questo sistema è molto facile abbellire un bilancio. Basta che lo
Stato depositi una grossa somma su un conto corrente postale”.
Authority
dipendente
Ma
almeno le lettere arrivano puntuali? Insieme alla solidità dei
bilanci, dovrebbe essere questo il principale metro di giudizio di
un'azienda postale. Anche perché il servizio, secondo una stima
della società di consulenza Copenaghen Economics, è fra i più cari
d'Europa. E la qualità com'è? Stando ai dati ufficiali, addirittura
eccellente. Sulla qualità di questi dati, invece, pesa qualche
incertezza.
La
vigilanza sull'azienda del Tesoro infatti è affidata a un altro
ministero, quello dello Sviluppo economico. Un bel conflitto
d'interessi, che doveva essere risolto lo scorso primo gennaio,
quando la Commissione europea ha obbligato l'Italia a liberalizzare
il mercato postale, insistendo sull'istituzione di un'Autorità
indipendente di vigilanza. La liberalizzazione non ha dato grandi
risultati e il monopolio di Poste Italiane è rimasto praticamente
intatto, ma l'Authority è stata formata. Peccato che sia alle
dirette dipendenze del ministero dello Sviluppo, che invece di
seguire alla lettera le linee guida della legge 481 del 1995 in
materia di regolazione dei servizi di pubblica utilità, si è
limitato a trasferire dirigenti e risorse per dare forma al nuovo
apparato burocratico. Non è ancora chiaro se la neonata "Agenzia
nazionale di regolamentazione del settore postale" sia
effettivamente in funzione e cosa stia facendo, ma i funzionari
esclusi hanno già presentato ricorso contro le prime nomine.
Rose
e fiori
Anche
nei prossimi anni, quindi, i dai ufficiali potrebbero confermare la
solita versione: le poste funzionano benone e le lettere arrivano in
orario, a parte una leggera flessione della puntualità rispetto agli
anni Novanta. Quasi un miracolo, visto che nell'ultimo decennio buona
parte del personale è stato mandato a casa o trasferito in massa ai
servizi finanziari, gli uffici minori continuano a chiudere i
battenti e i sistemi informatici fanno regolarmente i capricci. Nel
2010 Poste Italiane ha destinato alla “logistica postale” solo il
16% del totale degli investimenti e nell'ultimo anno i disservizi
postali sono stati oggetto di centinaia di interrogazioni
parlamentari. Sempre da quest'anno, oltretutto, è stata
completamente abolita la consegna di sabato della posta ordinaria e
il servizio è stato colpito da arbitrarie “sospensioni estive” e
periodi di "consegna a giorni alterni" nelle zone
periferiche.
Come se
non bastasse, le "due anime" di Poste spesso fanno a
cazzotti fra loro. I cittadini in coda per ritirare una raccomandata,
ad esempio, litigano con i clienti di BancoPosta che dispongono di
una "corsia preferenziale" anche per i servizi postali
(sull'argomento è stata presentata un'interrogazione parlamentare,
ancora senza risposta). Sembra la quadratura del cerchio: i
disservizi diventano un'occasione per fare cassa.
S.I.L.V.I.O.
Ma per
quale motivo Poste Italiane è oggetto di tante premure e gode di una
straordinaria libertà d'azione? L'amministratore delegato, Massimo
Sarmi (che prende lo stipendio anche come direttore generale e ora
anche come presidente del Mediocredito Centrale), è stato nominato e
riconfermato per quattro mandati consecutivi sempre da governi
presieduti da Silvio Berlusconi. Su proposta di Berlusconi è stato
anche insignito dei titoli di Commendatore, Grande Ufficiale e
Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana. Indimenticabile
l'inaugurazione, a fianco del presidente del Consiglio, del software
per la gestione della corrispondenza (che si è impiantato per
un'intera settimana lo scorso giugno). Il nome tecnico è “Sistema
informatico a livello virtuale di integrazione operativa”, da cui
l'acronimo: “S.I.L.V.I.O.”.
Vale la pena
ricordare anche la nomina dell'onorevole Maria Grazia Siliquini, lo
scorso aprile, nel consiglio d'amministrazione di Poste. A dicembre
2010 la deputata aveva graziato il governo con un voto di fiducia,
saltando da Fli al gruppo dei Responsabili. Memorabile la
dichiarazione: “Ho fatto il sottosegretario al ministero
dell'Istruzione, potrò ben dirigere le Poste!”. In seguito,
responsabilmente, la Siliquini ha rinunciato all'incarico.
L'ultimo episodio
risale all'estate: in cima ai pensieri dell'amministratore delegato,
la domenica di Ferragosto, c'era la firma di un protocollo d'intesa
(non proprio fondamentale) fra Poste Italiane e la Repubblica di
Panama. In quell'occasione il presidente panamense ha incontrato un
noto confidente del presidente del Consiglio, Valter Lavitola, che in
seguito, per sottrarsi alle inchieste giudiziarie, è volato proprio
a Panama.
Al
quadro si aggiunge il progetto di trasformare Poste in una “banca
di secondo livello”, attivando la Banca del Mezzogiorno: uno
strumento potente nelle mani dell'esecutivo, che potrà aprire e
chiudere, con la massima discrezionalità, il rubinetto dei
finanziamenti nel Sud Italia, incassando debiti di riconoscenza.