1 aprile 2012

CINESI IN ITALIA: BUSINESS DI STATO



di Francesco Martini

(Rolling Stone - RS Inchiesta)

I documenti sono in Mandarino, ma il significato è chiaro: la Repubblica Popolare Cinese governa anche in Italia, come se le comunità di immigrati fossero colonie.
I vertici del Partito Comunista esercitano “attività di coordinamento e controllo” a distanza: l'Ufficio Affari Cinesi d'Oltremare, guidato da un ministro, “elabora i piani di sviluppo" delle comunità all'estero con “politiche, regolamenti e linee guida”, come è scritto nelle carte governative. Le prefetture cinesi distribuiscono addirittura moduli prestampati e istruzioni per emigrare, consigli pratici per i clandestini e suggerimenti per aprire attività in terra straniera, richiamando i doveri di fedeltà alla patria: chi parte “deve principalmente avviare scambi economici" e trasmettere alle autorità cinesi “un flusso costante di informazioni”.



A differenza di rumeni, tunisini o filippini, che sbarcano in Italia senza l'appoggio dei rispettivi Paesi, i cinesi sono inseriti in una struttura gerarchica che fa capo direttamente alla Repubblica Popolare. In palio c'è la possibilità di arricchirsi, perché di soldi ne girano tanti: dalla Cina arrivano fiumi di investimenti e tonnellate di merce, roba facile da vendere, trasportata soprattutto da Cosco, la China Ocean Shipping Company, colosso mondiale delle navi cargo. Controllato, ovviamente, sempre dallo Stato.

I PADRONI DEI PORTI
Su una sola gigantesca nave della compagnia Cosco viaggiano 10mila container da 20 tonnellate. Per i porti italiani è linfa vitale: gran parte della merce che passa da Napoli viene dalla Cina.
In coppia con un'altra compagnia di Stato, China Shipping, Cosco è il principale armatore, nonché quinta compagnia al mondo in ordine di grandezza: oltre a possedere le navi, ha concessioni sulle banchine e controlla le infrastrutture logistiche e le principali società di carico e scarico merci. A conti fatti i veri padroni dei porti italiani non sono le autorità portuali, ma proprio le compagnie di trasporto: per fare un esempio, quando la danese Maersk ha interrotto gli sbarchi a Gioia Tauro, il 40% dei lavoratori portuali è finito in cassa integrazione.
Per non perdere i grandi clienti occorre garantire operazioni di scarico rapide, senza intralci. E succede che alcuni container sfuggano ai controlli, anche perché i doganieri fanno un lavoro da equilibristi: «Non possiamo insistere troppo, gli interventi devono essere mirati, altrimenti si rallenta il flusso delle merci», spiega Giovanni Bocchi, direttore dell'ufficio Antifrode dell'Agenzia delle Dogane. «Ispezioniamo soprattutto la merce cinese, che molto spesso risulta irregolare. Abbiamo notato», continua Bocchi, «che le compagnie di Pechino scelgono soprattutto i porti vicini alle grandi chinatown. Buona parte della merce, infatti, è destinata esclusivamente alla loro filiera».

ECONOMIA MEDIEVALE DI MERCATO
Come una grande corporazione, i cinesi nelle comunità italiane fanno riferimento agli stessi canali di importazione, hanno una rete commerciale separata e sfruttano come magazzini interi quartieri, paragonabili ai “fondachi” dell'antica Repubblica Veneta, ma su larga scala. I negozietti cinesi di merce varia, da Roma a Milano, condividono i fornitori, per questo sembrano filiali di una sola grande catena: da una bottega all'altra vendono lo stesso mestolo, la stessa borsetta, gli stessi caricabatterie.
E i prodotti illegali sono frequenti: «Quando entro in quei negozi», commenta il capo dell'Antifrode, «riconosco la merce che è sfuggita ai controlli. I prezzi sono bassi perché evadono i dazi doganali».
Le botteghe economiche sono la punta di un traffico enorme, «una rete organizzata in grado di piazzare sul mercato europeo, ad esempio, milioni di jeans», sintetizza Bocchi. È il business del “pronto moda": capi d'abbigliamento a basso costo prodotti in serie seguendo le tendenze dei grandi marchi. I modelli devono essere realizzati a tempo record, perciò vengono fatti in Italia con i tessuti già immagazzinati. Le fabbriche sono concentrate a Prato, il luogo perfetto: centrale, ben collegato, è un grande distretto industriale in crisi dove l'affitto dei capannoni costa poco.
Ufficialmente a Prato risiedono circa 12mila cinesi, ma è un dato un po' strano, considerato che le imprese cinesi sono più di 4.400 (di queste, una sola è iscritta a Confindustria). In pratica, contando anche vecchi e bambini, un cinese su tre risulta titolare di un'impresa: nelle statistiche ufficiali non c'è traccia di operai. Che ci sono, ovviamente. Ma quasi tutti clandestini.

BOSS DI BUON CUORE
La maggior parte degli immigrati cinesi proviene dalla provincia di Zhejiang, con 55 milioni di abitanti e 11 prefetture.
Traducendo il sito in Mandarino della prefettura di Wengzhou (la più importante) scopriamo l'esistenza di un attivissimo dipartimento degli Esteri, impegnato soprattutto a organizzare le partenze per l'Europa e curare il “gemellaggio con la città di Prato”. Il distretto industriale è descritto come “accogliente", “amichevole", “un pilastro del tessile". La vigilanza delle autorità è costante: il Wengzhou gestisce i rapporti con la comunità attraverso una “Associazione di amicizia” che ha base a Prato ma fa capo al dipartimento degli Esteri. Nell'esercizio del potere a distanza queste associazioni hanno un ruolo fondamentale: l'Ufficio Affari d'Oltremare delega il “coordinamento e controllo” proprio a “organizzazioni di carattere sociale”.
Hongyu Lin, assessore all'Integrazione di Campi Bisenzio (10 chilometri da Prato) conferma che «nelle comunità cinesi le persone più importanti e rispettate sono i dirigenti delle associazioni di amicizia. I capi si distinguono per il successo negli affari e il buon cuore verso i connazionali. Ogni tanto, in segno di riconoscenza, sono invitati in Cina dal governo: è considerato un grande onore». Anche il capo dell'Ufficio immigrazione della questura di Prato, Luca Gorrone, sostiene che «i capi delle associazioni, con l'approvazione del console, sono tenuti in grande considerazione dal governo cinese».
Peccato che il capo storico dell'Associazione di amicizia di Prato, l'imprenditore Ban Yun Dong, si vanti al telefono di essere un boss “rispettato da tutti i criminali cinesi”. Così almeno risulta da alcune intercettazioni: Dong è sotto processo per corruzione delle forze dell'ordine. Era già stato indagato per favoreggiamento e sfruttamento dell'immigrazione clandestina. Nelle telefonate Dong faceva riferimento anche a presunti regali per l'ex assessore comunale del Pd Giancarlo Maffei, che nel Wenghzou è un personaggio noto: è stato il punto di riferimento, a partire dal 2000, del gemellaggio con Prato. L'ex assessore, passato al Consiglio provinciale, si è dimesso in seguito allo scandalo.

ALLA CINA NON DISPIACE
«Ciò che agli italiani appare sconcertante è la mancanza di qualsiasi contatto: sembra che i cinesi non abbiano mai bisogno di nulla», commenta lo scrittore pratese Edoardo Nesi, ex proprietario di un lanificio e consigliere provinciale. Con il libro Storia della mia gente, vincitore del premio Strega nel 2011, ha raccontato l'ondata migratoria e la crisi del distretto. «I cinesi», dice lo scrittore, «non sono responsabili del nostro declino. Il pronto moda non è neppure in concorrenza, i loro affari non incrociano mai quelli degli italiani. Ma le aziende cinesi a Prato sono praticamente tutte illegali. Raccogliendo materiale per il libro», continua Nesi, «ho osservato alcune ispezioni e ho visto condizioni di lavoro penose». La manovalanza, che proviene soprattutto dalle campagne, lavora a ritmi serrati: deve restituire al “caporale” la spesa del viaggio d'andata. «Attenzione ai luoghi comuni: non sono solo schiavi, spesso riescono a mettere qualcosa da parte e ad aprire attività in proprio. Sono convinto», conclude lo scrittore, «che il governo cinese sia consapevole di ciò che succede qui. Non saprei dire se questo fenomeno sia incoraggiato, ma ho l'impressione che alla Cina non dispiaccia».

IL COLORE DEL GATTO
Il regime cinese ha potenti strumenti di sorveglianza e repressione, indirizza l'immigrazione, possiede la principale compagnia di trasporto, controlla direttamente le comunità d'Oltremare... Inevitabile chiederesi se non abbia alcuna responsabilità nel traffico clandestino di merce e di uomini. «Se c'è qualche tipo di responsabilità, ovviamente, io non lo so. Che posso dire... A quanto pare, il commercio viene prima di tutto», è ancora il commento di Bocchi, il dirigente delle Dogane.
Deng Xiaoping, l'inventore dell'Economia socialista di mercato (il “socialismo con caratteristiche cinesi”), l'aveva detto nel 1979: “Cinesi, arricchitevi!". È stato preso in parola. Dal pronto moda ai fondi sovrani, dai negozietti di cianfrusaglie alle multinazionali, nel grande piano economico del Dragone tutto è complementare.
L'ultima scatola cinese, la più grande, è quella degli investimenti (vedi box a pag.72-73, ndr): secondo l'Osservatorio Asia la Cina ha acquistato il 13% del debito pubblico italiano (ma i dati sono ballerini: altre fonti scendono al 4%) e ha accordi bilaterali con pilastri nazionali come Fiat, Ansaldo e Generali.
Il Dragone ha soldi da spendere e merce da esportare, e non guarda per il sottile. Anche questo l'ha insegnato Deng Xiaoping: “Non importa il colore del gatto: basta che prenda i topi". Con questa filosofia la prefettura di Wengzhou, sul sito del dipartimento degli Esteri, in risposta alle “domande frequenti", dice di impegnarsi a “contrastare il fenomeno dell'immigrazione clandestina", ma due righe più in basso passa al concreto: “Se il cittadino cinese viene scoperto come clandestino, e se il Paese ospite non rimborsa le spese per il rimpatrio, allora devono essere sostenute dai parenti o dalle persone vicine, con un pagamento in yuan o dollari americani direttamente alla Divisione Finanziaria del Ministero degli Esteri". C'è perfino il numero di conto corrente: nella causale del versamento bisogna scrivere “rimborso", il nome del clandestino e il Paese in cui è stato beccato.
«L'eventualità di un soggiorno irregolare all'altro capo del mondo, evidentemente, è considerata di ordinaria amministrazione », commenta ancora Gorrone, il capo dell'Ufficio immigrazione a Prato. Che comunque non è sorpreso: «Qui da noi, fra colleghi, gira una barzelletta. Il protagonista», racconta Gorrone, «è un cinese di Prato che vuole tornare in patria per festeggiare il Capodanno. Va alla stazione e chiede un biglietto per Pechino.
Il bigliettaio dice che non è possibile, al massimo può andare Firenze. Arrivato a Firenze stessa storia: vuole andare a Pechino ma gli fanno solo un biglietto fino a Vienna, e così via, una città dopo l'altra. Il viaggio è lunghissimo, ma arriva a destinazione in tempo per il Capodanno. Dopo i festeggiamenti, soddisfatto, vuole tornare in Italia. Alla stazione di Pechino chiede un biglietto per Prato. Il bigliettaio gli fa una sola domanda: Prato Centrale, Porta al Serraglio o Borgonuovo?».


ITALIA-CINA: LOVE STORY DI INTERESSI?

A Pechino c’è un bel viavai. Per corteggiare gli investitori Giulio Tremonti c’è stato a settembre dell’anno scorso, quand’era ancora ministro dell’Economia. Corrado Passera invece a giugno, ben prima della nomina a ministro, come amministratore di Intesa Sanpaolo. Negli ultimi tempi i capitali cinesi hanno salvato aziende italiane in difficoltà (anche assumendone il controllo) come Sergio Tacchini, Cerruti, Sixty, Benelli, Cifa, Meneghetti e i cantieri navali veneziani Dalla Pietà. A gennaio la fabbrica di yacht di lusso Ferretti è stata acquistata dalla Shandong Heavy Industries, controllata dallo Stato. In effetti le grandi imprese cinesi sono quasi tutte pubbliche. Nella lista di Fortune delle 500 multinazionali più importanti del pianeta, 61 sono della Repubblica Popolare e di queste almeno 53 sono statali. Altre si collocano in una zona grigia, a metà fra pubblico e privato.

Come Huawei, gigante delle telecomunicazioni di Shenzhen, che in Italia fabbrica le “chiavette Internet” di quasi tutte le compagnie telefoniche.
È un’azienda privata, ma riceve grossi finanziamenti dal governo di Pechino e l’amministratrice, Sun Yafang, ha militato nell’Esercito Popolare e nei servizi segreti, almeno secondo un dispaccio della Cia dello scorso ottobre. Perciò in Usa, Inghilterra e India, che su queste cose non scherzano, si è diffuso un allerta per la sicurezza nazionale e molti contratti importanti sono saltati. Il governo italiano, invece, sembra non farci caso: a giugno dell’anno scorso ha siglato un accordo con Huawei per la costruzione delle infrastrutture di rete mobile.



Import, export e traffici “sporchi”


+40%
è l'incremento del volume di importazioni dalla Cina negli ultimi due anni (con una leggera flessione nel 2011).

29mld di euro
è il valore delle importazioni dalla Cina nel 2011. L’Italia, invece, ha esportato in Cina merce per 9 miliardi e 883 milioni di euro.

4,5 mld di euro
è il valore delle importazioni dalla Cina di prodotti tessili, abbigliamento e scarpe.

27%
è la merce cinese sul totale del valore delle importazioni (esclusi i minerali). Sul totale delle esportazioni italiane, la merce diretta in Cina è l’8,3%.
24%
sono le “macchine, apparecchi e materiale elettrico” sul totale della merce importata dalla Cina;
22% per “prodotti tessili e di abbigliamento, borse o borsette, lavori in cuoio o in pelle e calzature”, 15% per “macchine e apparecchi meccanici”.

3milioni 342mila
sono le confezioni di profilattici contraffatte sequestrate, provenienti dalla Cina. È la più grande partita di merce contraffatta scoperta nel 2011. Fra capi d’abbigliamento, scarpe e cinture, sono stati sequestrati circa un milione di pezzi.

1.202 tonnellate di rifiuti plastici
sequestrati nel 2011, destinati alla Cina, dove sono trattati per fabbricare prodotti, spesso potenzialmente tossici, destinati alla vendita anche in Italia (come da indagine della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti).