di Francesco Martini
(Rolling Stone - RS Inchiesta)
I documenti sono in Mandarino, ma il significato è chiaro: la Repubblica Popolare Cinese governa anche in Italia, come se le comunità di immigrati fossero colonie.
(Rolling Stone - RS Inchiesta)
I documenti sono in Mandarino, ma il significato è chiaro: la Repubblica Popolare Cinese governa anche in Italia, come se le comunità di immigrati fossero colonie.
I vertici del Partito Comunista
esercitano “attività di coordinamento e controllo” a distanza:
l'Ufficio Affari Cinesi d'Oltremare, guidato da un ministro, “elabora
i piani di sviluppo" delle comunità all'estero con “politiche,
regolamenti e linee guida”, come è scritto nelle carte
governative. Le prefetture cinesi distribuiscono addirittura moduli
prestampati e istruzioni per emigrare, consigli pratici per i
clandestini e suggerimenti per aprire attività in terra straniera,
richiamando i doveri di fedeltà alla patria: chi parte “deve
principalmente avviare scambi economici" e trasmettere alle
autorità cinesi “un flusso costante di informazioni”.
A differenza di rumeni, tunisini o
filippini, che sbarcano in Italia senza l'appoggio dei rispettivi
Paesi, i cinesi sono inseriti in una struttura gerarchica che fa capo
direttamente alla Repubblica Popolare. In palio c'è la possibilità
di arricchirsi, perché di soldi ne girano tanti: dalla Cina arrivano
fiumi di investimenti e tonnellate di merce, roba facile da vendere,
trasportata soprattutto da Cosco, la China Ocean Shipping Company,
colosso mondiale delle navi cargo. Controllato, ovviamente, sempre
dallo Stato.
I PADRONI DEI PORTI
Su una sola gigantesca nave della
compagnia Cosco viaggiano 10mila container da 20 tonnellate. Per i
porti italiani è linfa vitale: gran parte della merce che passa da
Napoli viene dalla Cina.
In coppia con un'altra compagnia di
Stato, China Shipping, Cosco è il principale armatore, nonché
quinta compagnia al mondo in ordine di grandezza: oltre a possedere
le navi, ha concessioni sulle banchine e controlla le infrastrutture
logistiche e le principali società di carico e scarico merci. A
conti fatti i veri padroni dei porti italiani non sono le autorità
portuali, ma proprio le compagnie di trasporto: per fare un esempio,
quando la danese Maersk ha interrotto gli sbarchi a Gioia Tauro, il
40% dei lavoratori portuali è finito in cassa integrazione.
Per non perdere i grandi clienti
occorre garantire operazioni di scarico rapide, senza intralci. E
succede che alcuni container sfuggano ai controlli, anche perché i
doganieri fanno un lavoro da equilibristi: «Non possiamo insistere
troppo, gli interventi devono essere mirati, altrimenti si rallenta
il flusso delle merci», spiega Giovanni Bocchi, direttore
dell'ufficio Antifrode dell'Agenzia delle Dogane. «Ispezioniamo
soprattutto la merce cinese, che molto spesso risulta irregolare.
Abbiamo notato», continua Bocchi, «che le compagnie di Pechino
scelgono soprattutto i porti vicini alle grandi chinatown. Buona
parte della merce, infatti, è destinata esclusivamente alla loro
filiera».
ECONOMIA MEDIEVALE DI MERCATO
Come una grande corporazione, i cinesi
nelle comunità italiane fanno riferimento agli stessi canali di
importazione, hanno una rete commerciale separata e sfruttano come
magazzini interi quartieri, paragonabili ai “fondachi”
dell'antica Repubblica Veneta, ma su larga scala. I negozietti cinesi
di merce varia, da Roma a Milano, condividono i fornitori, per questo
sembrano filiali di una sola grande catena: da una bottega all'altra
vendono lo stesso mestolo, la stessa borsetta, gli stessi
caricabatterie.
E i prodotti illegali sono frequenti:
«Quando entro in quei negozi», commenta il capo dell'Antifrode,
«riconosco la merce che è sfuggita ai controlli. I prezzi sono
bassi perché evadono i dazi doganali».
Le botteghe economiche sono la punta di
un traffico enorme, «una rete organizzata in grado di piazzare sul
mercato europeo, ad esempio, milioni di jeans», sintetizza Bocchi. È
il business del “pronto moda": capi d'abbigliamento a basso
costo prodotti in serie seguendo le tendenze dei grandi marchi. I
modelli devono essere realizzati a tempo record, perciò vengono
fatti in Italia con i tessuti già immagazzinati. Le fabbriche sono
concentrate a Prato, il luogo perfetto: centrale, ben collegato, è
un grande distretto industriale in crisi dove l'affitto dei capannoni
costa poco.
Ufficialmente a Prato risiedono circa
12mila cinesi, ma è un dato un po' strano, considerato che le
imprese cinesi sono più di 4.400 (di queste, una sola è iscritta a
Confindustria). In pratica, contando anche vecchi e bambini, un
cinese su tre risulta titolare di un'impresa: nelle statistiche
ufficiali non c'è traccia di operai. Che ci sono, ovviamente. Ma quasi tutti
clandestini.
BOSS DI BUON CUORE
La maggior parte degli immigrati cinesi
proviene dalla provincia di Zhejiang, con 55 milioni di abitanti e 11
prefetture.
Traducendo il sito in Mandarino della
prefettura di Wengzhou (la più importante) scopriamo l'esistenza di
un attivissimo dipartimento degli Esteri, impegnato soprattutto a
organizzare le partenze per l'Europa e curare il “gemellaggio con
la città di Prato”. Il distretto industriale è descritto come
“accogliente", “amichevole", “un pilastro del
tessile". La vigilanza delle autorità è costante: il Wengzhou
gestisce i rapporti con la comunità attraverso una “Associazione
di amicizia” che ha base a Prato ma fa capo al dipartimento degli
Esteri. Nell'esercizio del potere a distanza queste associazioni
hanno un ruolo fondamentale: l'Ufficio Affari d'Oltremare delega il
“coordinamento e controllo” proprio a “organizzazioni di
carattere sociale”.
Hongyu Lin, assessore all'Integrazione
di Campi Bisenzio (10 chilometri da Prato) conferma che «nelle
comunità cinesi le persone più importanti e rispettate sono i
dirigenti delle associazioni di amicizia. I capi si distinguono per
il successo negli affari e il buon cuore verso i connazionali. Ogni
tanto, in segno di riconoscenza, sono invitati in Cina dal governo: è
considerato un grande onore». Anche il capo dell'Ufficio
immigrazione della questura di Prato, Luca Gorrone, sostiene che «i
capi delle associazioni, con l'approvazione del console, sono tenuti
in grande considerazione dal governo cinese».
Peccato che il capo storico
dell'Associazione di amicizia di Prato, l'imprenditore Ban Yun Dong,
si vanti al telefono di essere un boss “rispettato da tutti i
criminali cinesi”. Così almeno risulta da alcune intercettazioni:
Dong è sotto processo per corruzione delle forze dell'ordine. Era
già stato indagato per favoreggiamento e sfruttamento
dell'immigrazione clandestina. Nelle telefonate Dong faceva
riferimento anche a presunti regali per l'ex assessore comunale del
Pd Giancarlo Maffei, che nel Wenghzou è un personaggio noto: è
stato il punto di riferimento, a partire dal 2000, del gemellaggio
con Prato. L'ex assessore, passato al Consiglio provinciale, si è
dimesso in seguito allo scandalo.
ALLA CINA NON DISPIACE
«Ciò che agli italiani appare
sconcertante è la mancanza di qualsiasi contatto: sembra che i
cinesi non abbiano mai bisogno di nulla», commenta lo scrittore
pratese Edoardo Nesi, ex proprietario di un lanificio e consigliere
provinciale. Con il libro Storia della mia gente, vincitore del
premio Strega nel 2011, ha raccontato l'ondata migratoria e la crisi
del distretto. «I cinesi», dice lo scrittore, «non sono
responsabili del nostro declino. Il pronto moda non è neppure in
concorrenza, i loro affari non incrociano mai quelli degli italiani.
Ma le aziende cinesi a Prato sono praticamente tutte illegali.
Raccogliendo materiale per il libro», continua Nesi, «ho osservato
alcune ispezioni e ho visto condizioni di lavoro penose». La
manovalanza, che proviene soprattutto dalle campagne, lavora a ritmi
serrati: deve restituire al “caporale” la spesa del viaggio
d'andata. «Attenzione ai luoghi comuni: non sono solo schiavi,
spesso riescono a mettere qualcosa da parte e ad aprire attività in
proprio. Sono convinto», conclude lo scrittore, «che il governo
cinese sia consapevole di ciò che succede qui. Non saprei dire se
questo fenomeno sia incoraggiato, ma ho l'impressione che alla Cina
non dispiaccia».
IL COLORE DEL GATTO
Il regime cinese ha potenti strumenti
di sorveglianza e repressione, indirizza l'immigrazione, possiede la
principale compagnia di trasporto, controlla direttamente le comunità
d'Oltremare... Inevitabile chiederesi se non abbia alcuna
responsabilità nel traffico clandestino di merce e di uomini. «Se
c'è qualche tipo di responsabilità, ovviamente, io non lo so. Che
posso dire... A quanto pare, il commercio viene prima di tutto», è
ancora il commento di Bocchi, il dirigente delle Dogane.
Deng Xiaoping, l'inventore
dell'Economia socialista di mercato (il “socialismo con
caratteristiche cinesi”), l'aveva detto nel 1979: “Cinesi,
arricchitevi!". È stato preso in parola. Dal pronto moda ai
fondi sovrani, dai negozietti di cianfrusaglie alle multinazionali,
nel grande piano economico del Dragone tutto è complementare.
L'ultima scatola cinese, la più
grande, è quella degli investimenti (vedi box a pag.72-73, ndr):
secondo l'Osservatorio Asia la Cina ha acquistato il 13% del debito
pubblico italiano (ma i dati sono ballerini: altre fonti scendono al
4%) e ha accordi bilaterali con pilastri nazionali come Fiat, Ansaldo
e Generali.
Il Dragone ha soldi da spendere e merce
da esportare, e non guarda per il sottile. Anche questo l'ha
insegnato Deng Xiaoping: “Non importa il colore del gatto: basta
che prenda i topi". Con questa filosofia la prefettura di
Wengzhou, sul sito del dipartimento degli Esteri, in risposta alle
“domande frequenti", dice di impegnarsi a “contrastare il
fenomeno dell'immigrazione clandestina", ma due righe più in
basso passa al concreto: “Se il cittadino cinese viene scoperto
come clandestino, e se il Paese ospite non rimborsa le spese per il
rimpatrio, allora devono essere sostenute dai parenti o dalle persone
vicine, con un pagamento in yuan o dollari americani direttamente
alla Divisione Finanziaria del Ministero degli Esteri". C'è
perfino il numero di conto corrente: nella causale del versamento
bisogna scrivere “rimborso", il nome del clandestino e il
Paese in cui è stato beccato.
«L'eventualità di un soggiorno
irregolare all'altro capo del mondo, evidentemente, è considerata di
ordinaria amministrazione », commenta ancora Gorrone, il capo
dell'Ufficio immigrazione a Prato. Che comunque non è sorpreso: «Qui
da noi, fra colleghi, gira una barzelletta. Il protagonista»,
racconta Gorrone, «è un cinese di Prato che vuole tornare in patria
per festeggiare il Capodanno. Va alla stazione e chiede un biglietto
per Pechino.
Il bigliettaio dice che non è
possibile, al massimo può andare Firenze. Arrivato a Firenze stessa
storia: vuole andare a Pechino ma gli fanno solo un biglietto fino a
Vienna, e così via, una città dopo l'altra. Il viaggio è
lunghissimo, ma arriva a destinazione in tempo per il Capodanno. Dopo
i festeggiamenti, soddisfatto, vuole tornare in Italia. Alla stazione
di Pechino chiede un biglietto per Prato. Il bigliettaio gli fa una
sola domanda: Prato Centrale, Porta al Serraglio o Borgonuovo?».
ITALIA-CINA: LOVE STORY DI INTERESSI?
A Pechino c’è un bel viavai. Per corteggiare gli investitori Giulio Tremonti c’è stato a settembre dell’anno scorso, quand’era ancora ministro dell’Economia. Corrado Passera invece a giugno, ben prima della nomina a ministro, come amministratore di Intesa Sanpaolo. Negli ultimi tempi i capitali cinesi hanno salvato aziende italiane in difficoltà (anche assumendone il controllo) come Sergio Tacchini, Cerruti, Sixty, Benelli, Cifa, Meneghetti e i cantieri navali veneziani Dalla Pietà. A gennaio la fabbrica di yacht di lusso Ferretti è stata acquistata dalla Shandong Heavy Industries, controllata dallo Stato. In effetti le grandi imprese cinesi sono quasi tutte pubbliche. Nella lista di Fortune delle 500 multinazionali più importanti del pianeta, 61 sono della Repubblica Popolare e di queste almeno 53 sono statali. Altre si collocano in una zona grigia, a metà fra pubblico e privato.
Come Huawei, gigante delle
telecomunicazioni di Shenzhen, che in Italia fabbrica le “chiavette
Internet” di quasi tutte le compagnie telefoniche.
È un’azienda privata, ma riceve
grossi finanziamenti dal governo di Pechino e l’amministratrice,
Sun Yafang, ha militato nell’Esercito Popolare e nei servizi
segreti, almeno secondo un dispaccio della Cia dello scorso ottobre.
Perciò in Usa, Inghilterra e India, che su queste cose non
scherzano, si è diffuso un allerta per la sicurezza nazionale e
molti contratti importanti sono saltati. Il governo italiano, invece,
sembra non farci caso: a giugno dell’anno scorso ha siglato un
accordo con Huawei per la costruzione delle infrastrutture di rete
mobile.
Import, export e traffici “sporchi”
+40%
è l'incremento del volume di
importazioni dalla Cina negli ultimi due anni (con una leggera
flessione nel 2011).
29mld di euro
è il valore delle importazioni dalla
Cina nel 2011. L’Italia, invece, ha esportato in Cina merce per 9
miliardi e 883 milioni di euro.
4,5 mld di euro
è il valore delle importazioni dalla
Cina di prodotti tessili, abbigliamento e scarpe.
27%
è la merce cinese sul totale del
valore delle importazioni (esclusi i minerali). Sul totale delle
esportazioni italiane, la merce diretta in Cina è l’8,3%.
24%
sono le “macchine, apparecchi e
materiale elettrico” sul totale della merce importata dalla Cina;
22% per “prodotti tessili e di
abbigliamento, borse o borsette, lavori in cuoio o in pelle e
calzature”, 15% per “macchine e apparecchi meccanici”.
3milioni 342mila
sono le confezioni di profilattici
contraffatte sequestrate, provenienti dalla Cina. È la più grande
partita di merce contraffatta scoperta nel 2011. Fra capi
d’abbigliamento, scarpe e cinture, sono stati sequestrati circa un
milione di pezzi.
1.202 tonnellate di rifiuti plastici
sequestrati nel 2011, destinati alla
Cina, dove sono trattati per fabbricare prodotti, spesso
potenzialmente tossici, destinati alla vendita anche in Italia (come
da indagine della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti).